Agli Usa e Trump il Nobel per la guerra e le menzogne

Agli Usa e Trump il Nobel per la guerra e le menzogne

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Tempo di lettura: 4 min

di Alberto Negri
I conflitti iniziati o partecipati dagli Stati uniti negli ultimi vent’anni in otto paesi (Afghanistan, Pakistan, Iraq, Libia, Siria, Yemen, Somalia e Filippine) hanno provocato almeno 37 milioni tra rifugiati e sfollati interni, lo dice un rapporto della Brown University.
Ci sono alcune buone ragioni per ritenere demenziale la proposta di un deputato norvegese di candidare Trump al Nobel per la pace. Il più evidente è che Trump è un mentitore seriale come dimostra la vicenda del Covid-19 di cui conosceva la gravità ma pubblicamente la negava e la nascondeva al suo popolo. Ma c’è un’altra motivazione più generale: tutti i presidenti Usa degli ultimi vent’anni dovrebbero essere portati alla sbarra di un tribunale internazionale.
Non lo diciamo noi su questo giornale, lo affermano gli stessi accademici americani che hanno appena pubblicato una ricerca sconvolgente.

L’8 settembre la Brown University – segnala sul Manifesto Chiara Cruciati – ha reso pubblico un rapporto intrecciando i dati delle più importanti agenzie internazionali (Unchr, Oim, Ocha, Idcm), raccolti dopo l’11 settembre 2001 fino al 2019: dall’inizio della cosiddetta guerra americana al terrore, i conflitti iniziati o partecipati dagli Stati uniti in otto paesi (Afghanistan, Pakistan, Iraq, Libia, Siria, Yemen, Somalia e Filippine) hanno provocato almeno 37 milioni tra rifugiati e sfollati interni.
Un numero enorme e decisamente sottostimato: è molto più probabile che il numero si aggiri sui 59 milioni. Una popolazione pari all’Italia. Il bilancio salirebbe, spiega il rapporto, considerando i milioni fuggiti dai paesi in cui l’esercito Usa ha impiegato truppe da combattimento, droni, addestramento militare e vendita di armi in conflitti pre-esistenti, in Camerun, Burkina Faso, Ciad, Congo, Sud Sudan, Uganda, Nigeria, Niger.
Restando sui numeri accertati, quei 37 milioni, il paragone è presto fatto: quattro volte il numero di rifugiati provocati dalla prima guerra mondiale, tre volte quello della guerra Usa in Vietnam e quasi pari a quello della seconda guerra mondiale.
Di questi, circa 25,3 milioni sono tornati nel paese di origine (se rifugiati) o nel villaggio di origine (se internally displaced persons, sfollati interni). Se in alcuni casi il ritorno è dovuto a un miglioramento delle condizioni di vita, non cancella l’esperienza della fuga e della lotta per la sopravvivenza, non equivale a un ritorno alla normalità. Basti pensare all’impoverimento materiale e morale, alle divisioni etniche e religiose che hanno straformato intere società come quella afghana, irachena, siriana o yemenita.

Tra i paesi più colpiti ci sono Afghanistan e Iraq, con numeri record di rifugiati (5,3 milioni e 9,2 milioni), i due obiettivi che per primi sono stati presi di mira dagli Stati Uniti con motivazioni diverse subito dopo l’11 settembre 2001, da Al Qaeda alle mai trovate armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Le ragioni dello sfollamento forzato sono identiche: la violenza diretta della guerra e la distruzione delle infrastrutture fondamentali (scuole, ospedali, interi quartieri) e della rete socio-economica (lavoro e risorse naturali). Senza contare gli effetti “indiretti” delle occupazioni militari, la nascita o la crescita di milizie armate anti-Usa e l’imposizione di nuovi sistemi di potere che hanno provocato la marginalizzazione di intere comunità.
Più recente ma con numeri senza precedenti è la guerra siriana. Il rapporto si è concentrato sulle cinque province dove l’esercito Usa è stato operativo dall’agosto 2014, anno dell’intervento voluto da Barack Obama, premiato con il Nobel per la pace nel 2009: 7,1 milioni di persone e la distruzione di un intero paese, a cui hanno preso parte il governo siriano stesso, la Russia, le monarchie del Golfo, la Turchia e lo steso Israele. C’è il Pakistan (3,7 milioni di sfollati) della compartecipazione Usa alla guerra contro le organizzazione talebane, a partire dal 2001.
C’è lo Yemen (4,4 milioni) dal 2002 a oggi, prima con l’avvio delle operazioni “mirate” contro Al Qaeda e poi con il sostegno all’intervento saudita del 2015 seguito da quello degli Emirati arabi uniti, il Paese della “pace” con Israele ma della guerra nel cortile di casa. E poi la Somalia (4,2 milioni), anche questa coinvolta della “guerra al terrore” dal 2002, oggi tradotta nei bombardamenti, intensificati da Trump, contro Al-Shabaab. Somalia che per altro negli anni ’90 era stata abbandonata al suo destino proprio dagli Usa
C’è la Libia dell’intervento del 2001 voluto da Francia, Usa e Gran Bretagna, poi messo sotto l’ombrello Nato (1,2 milioni), alle prese oggi con l’effetto diretto di quella scelta, ovvero una guerra civile senza fine apparente e che ha provocato l’afflusso di centinaia di migliaia di profughi in Italia. E infine le Filippine (1.7 milioni), il cui governo è stato riccamente sostenuto contro i gruppi jihadisti basati a Mindanao.
Tra le conseguenze delle guerre guidate dagli Usa in questo ventennio c’è il fallimento degli Stati colpiti. L’Iraq è preda di settarismo interno e corruzione, estrema povertà e abnormi diseguaglianze sociali. La Libia, in piena guerra civile, e frammentata in autorità locali e città-Stato. La Siria è tuttora divisa, tra zone controllate dal governo, una provincia (Idlib) in mano ai jihadisti e il Rojava curdo occupato dalla Turchia che ha masscarto i curdi ovvero i maggiori alleati degli americani nella guerra al Califfato.
Il ruolo Usa in alcuni dei paesi analizzati nel rapporto della Brown University (raid aerei e assistenza militare) si è tradotta in carestie senza precedenti. In Somalia, al 2011, si contavano 250mila morti per fame, nel 2020 1,3 milioni di persone soffrono di malnutrizione. In Yemen 21 milioni di persone (l’80% della popolazione totale) non ha accesso costante e sicuro ad acqua potabile e cibo. Entro la fine del 2020, secondo l’Onu, 2,4 bambini saranno denutriti.
Nel novembre 2018 la Brown University aveva dedicato un rapporto al numero di uccisi tra Afghanistan, Iraq e Pakistan, nei conflitti nati all’interno della “guerra al terrore” Usa: tra 480mila e 507mila, che non tengono conto delle vittime delle guerre siriana e yemenita. Di questo mezzo milione, i civili sono circa la metà, tra 244 e 266mila morti. Il rapporto, aggiornato a gennaio 2020, calcola 800mila morti tra Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen e Pakistan. Con questi numeri raggelanti che qualcuno vuole ancora proporre i presidenti americani per il Nobel della pace?

Tratto da: Antimafiaduemila

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