Sono 232 i boss che dal 2017 hanno lasciato le patrie galere dopo aver scontato il loro debito con la giustizia. 62 da luglio a dicembre 2018, 51 invece quelli da gennaio a giugno 2019. Cifre che non lasciano indifferenti sia per il numero che, soprattutto, per la caratura criminale. Molti di questi infatti sono padrini di spessore che possono rappresentare ancora un pericolo per la società in quanto potrebbero rientrare all’interno delle compagini criminali che hanno lasciato con il loro arresto e tentare così di riorganizzarne gli assetti. L’allarme, come riporta La Repubblica, è contenuto nel rapporto che il prefetto di Palermo Antonella De Miro ha consegnato alla commissione parlamentare antimafia in trasferta ieri a Palermo e a Corleone per alcune audizioni fra magistrati e forze dell’ordine.
Della situazione è cosciente Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia. “Siamo di fronte a una Cosa nostra che è stata indebolita nella sua componente corleonese, ma non è stata sconfitta, è tornata ad essere una Cosa nostra silente, che è molto più pericolosa, perché mafia degli affari”.
Grandi attenzioni da parte del prefetto sul capoluogo siciliano. A Palermo infatti di recente sono stati scarcerati oltre una decina di soggetti di peso appartenenti a Cosa nostra. Tra questi ci sono, secondo la Dia, quatto reggenti di mandamento: Giovanni Bosco, di Passo di Rigano; Giulio Caporrimo, di Tommaso Natale; Salvo Genova e Diego Di Trapani, di Resuttana. Non solo. In città il 4 dicembre 2018 i carabinieri hanno stroncato sul nascere il tentativo di riorganizzazione di Cosa nostra con l’operazione “Cupola 2.0”. Mentre la scorsa estate la polizia ha inferto un duro colpo agli Inzerillo. Operazioni, queste, che secondo il prefetto De Miro “potrebbero aver sterilizzato e rinviato le eventuali manovre strategiche per recuperare posizioni più o meno rilevanti”. Cosa nostra però nonostante “gli indiscutibili importanti successi investigativi e giudiziari che hanno duramente colpito l’organizzazione” continua a mantenere “una sua particolare vitalità – si legge nel rapporto – sia sotto il profilo organizzativo, che sotto il profilo delle dinamiche più propriamente indirizzate ad esercitare un manifesto potere sul territorio”.
Dal rapporto inoltre si evince come Cosa nostra sia suddivisa in due campi differenti, entrambi però dimostrano la presenza di un grande fermento criminale. Da una parte la mafia del territorio attiva nel traffico di droga (in accordo con calabresi e campani e i sudamericani), nel gioco on line e nelle estorsioni, ma in maniera meno incisiva, “che rimane appannaggio dei livelli bassi dell’organizzazione”. Dall’altro invece la mafia degli affari in costante evoluzione. Su questo versante, da tenere sott’occhio, il prefetto ha evidenziato i settori in cui le imprese mafiose continuano a investire grosse somme: “Edilizia, trasporti, commercio di prodotti petroliferi, grande distribuzione, settore turistico-alberghiero, ristorazione, intermediazione finanziaria e imballaggi”.
L’altro grande business è quello dell’infiltrazione negli enti locali delle piccole realtà di provincia come la raccolta dei rifiuti, le attività dei servizi sociali e la riscossione dei tributi. “Le cosche – si legge – riescono a condizionare la vita politica e amministrativa degli enti grazie anche alla compiacenza di amministratori comunali eletti con l’appoggio dei boss, a strutture burocratiche di scarso spessore professionale che annoverano al proprio interno anche dipendenti vicini all’organizzazione; il tutto reso più agevole da un endemico disordine amministrativo”.
Fonte: Antimafiaduemila
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