Di Karim El Sadi
Tratto da: Antimafiaduemila
Lo sconforto della comunità internazionale, dopo 5 giorni sotto terra il bambino esala l’ultimo respiro
10 giugno 1981 il piccolo Alfredo Rampi, detto “Alfredino”, cade accidentalmente in un pozzo nei dintorni di casa a Vermicello, paesello nel Lazio. Arrivano i soccorsi ma fin da subito appaiono chiare grandi difficoltà per portare in salvo il bambino. Nel frattempo la voce si sparge, arrivano curiosi e poi giornalisti e telecamere. La Rai riprenderà per 18 ore senza sosta le immagini dei soccorsi. Per giorni gli occhi dell’opinione pubblica italiana sono incollati allo schermo per assistere a ciò che accade a Vermicello, sperando per il meglio. Ma invano. Dopo circa 72 ore, e vari tentativi di trarlo in salvo da parte di soccorritori e volontari, Alfredino muore. Lo sconforto è tanto, collettivo, possente e tocca tutta la comunità di Vermicino e il Paese intero, rimasto per giorni a seguire gli aggiornamenti sul campo. Oggi dopo 40 anni quelle stesse immagini, quelle stesse sensazioni tornano con tutta la loro carica drammatica in Marocco, non lontano dall’Italia. Questa volta a precipitare in un pozzo è stato il piccolo Rayan Ourram, di 5 anni. Meno di una settimana fa Rayan si era allontanato per giocare nei campi ad Ighrane, villaggio nel nord del Marocco, nella regione del Rif, esattamente come aveva fatto molte altre volte. La madre, non vedendolo rientrare a casa, ha chiamato i soccorsi. Poi la terribile scoperta: Rayan era caduto nel pozzo profondo 30 metri nei dintorni di casa. Immediati i soccorsi, prima si è cercato di raggiungerlo dall’entrata del pozzo, ma era troppo piccola, impossibile sfruttarla. Quindi si è pensato di scavare parallelamente ad esso per poterne raggiungere la profondità, lì dove Rayan giaceva, ferito, anche lui, come Alfredino, al freddo, senza acqua, cibo e aria. Anche con Rayan le telecamere sono arrivate di corsa riprendendo la scena per giornate intere e le persone hanno iniziato ad arrivare per assistere ai soccorsi, spinti anche da una mobilitazione sui social che al tempo del povero Alfredino non esistevano.
A milioni, infatti, da casa, scuola, ufficio, hanno appreso del bambino intrappolato in Marocco. Gli occhi dell’opinione pubblica sono stati su quelle campagne per giorni. L’intero Paese col fiato sospeso. Quindi l’Africa, poi l’Europa e infine il mondo intero. Non c’è mezzo stampa che non abbia parlato del piccolo Rayan in questi giorni. Non c’è anima che, appresa la notizia, non abbia sperato in un lieto fine. Ma così non è stato. Dopo 100 ore dentro al pozzo, nonostante le speranze, i soccorsi, gli aiuti, Rayan non ce l’ha fatta. I soccorritori sono riusciti a tirarlo fuori sabato sera intorno alle 21.30 raggiungendo la cavità del pozzo. La notizia lanciata a mezzo stampa in un primo momento è stata che Rayan era vivo. Chi per giorni ha assistito alla vicenda ha lanciato un respiro di sollievo, ha gioito ed esultato, soprattutto sui social. In Marocco tutti hanno gridato al miracolo. “La sventura vissuta da Rayan è stata voluta da Dio per unire il popolo spaccato grazie allo spirito di solidarietà, del pronto soccorso”, si è detto nelle tv nazionali. Ma la realtà è arrivata fredda come una secchiata di acqua gelida intorno alle 22, pochi minuti dopo la notizia del recupero del piccolo. Rayan è morto per le ferite riportate. E’ probabile che il piccolo sia morto ore, se non giorni prima che i vigili del fuoco e i volontari riuscissero a raggiungerlo. Su questo sono in corso accertamenti.
Crisi idrica e tecnologia incapace di salvare vite
Quel che è certo però è lo sconforto, un’intera comunità sconvolta, affranta. Ora si cercano precise responsabilità. La prima: del governo. Nelle aree lontane dalla costa, nell’entroterra, la siccità e la desertificazione si fanno sentire sempre di più. La carenza d’acqua e di un efficiente sistema di sostentamento idrico in aree come Rif e Zagora ha portato a un malcontento e una rabbia collettiva nei confronti del governo, accusato di aver tagliato fuori chi vive nelle zone rurali del Marocco. Nel 2017, fu proprio per la carenza d’acqua che sono scoppiate forti proteste nella regione di Rif, la stessa dove si trova il villaggio di Rayan. Nella città di Ouazzane i manifestanti hanno chiesto al governo di agire contro i coltivatori locali che stavano abusando dell’acqua per la produzione di cannabis, una coltura ad alta intensità idrica diffusa nel Rif.
Lo stesso, sempre nel 2017, è avvenuto a Zagora, dove 23 manifestanti sono stati arrestati nel corso di una protesta contro lo sfruttamento del terreno e delle falde acquifere da parte delle aziende coltivatrici di angurie, destinate all’esportazione che richiedono abbondante acqua, trattenendo così svariati metri cubi di acqua, accaparrandosi, per di più, i terreni a maggior capacità idrica per la loro coltivazione. Tutto questo ha spinto i berberi Amazigh che abitano queste aree a provvedere autonomamente con le trivellazioni di aree per pozzi di fortuna, talvolta aiutati anche dalle istituzioni locali intenti a rattoppare le loro mancanze, per poter irrigare i campi, mangiare e bere. E’ in uno di questi anonimi pozzi che è finito il povero Rayan.
L’altra grande responsabilità per la morte di Rayan è più di carattere generico e riguarda la società, incapace di salvare una vita intrappolata a 30 metri sotto terra. Negli ultimi anni le grandi potenze sono riuscite a creare sistemi tecnologici di altissima sofisticatezza, ma per lo più, in molti casi, diretti all’involuzione della civiltà, piuttosto che all’evoluzione: vengono fabbricati armamenti e missili nucleari in grado di raggiungere dieci volte la velocità del suono e polverizzare in pochi minuti intere aree abitative; vengono ideati nuovi modelli di device e tecnologie di quinta generazione che però potrebbero danneggiare l’utente e l’ecosistema. Tra qualche anno l’uomo potrà mettere piede su Marte, e passeggiare sul pianeta rosso. La società capitalista, consumista, globalista ha raggiunto grandi traguardi scientifici e tecnologici ma lì dove lo sviluppo avrebbe dovuto favorire il sostentamento e la difesa della vita, il così detto “progresso” ha fallito. E forse è questa la più grande colpa che abbiamo.
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