Nuova base missilistica Pechino: ad un passo dalla guerra totale con Stati Uniti

Nuova base missilistica Pechino: ad un passo dalla guerra totale con Stati Uniti

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Tempo di lettura: 3 min

Di Francesco Ciotti

Sono ben 110 i silos di lancio nucleare che la Cina starebbe realizzando nella regione occidentale dello Xinjinag, 2.200 chilometri ad Ovest di Pechino. Un’imponente base missilistica che, secondo le ultime indiscrezioni di esperti militari statunitensi, sarebbe ora capace di ospitare un numero di missili simile alle 120 postazioni di lancio già in costruzione vicino alla città di Yumen. Gli analisti hanno rilanciato scenari allarmistici sullo scacchiere strategico di Pechino. “La costruzione di silos nei siti di Yumen e Hami costituisce la maggiore espansione dell’arsenale nucleare cinese di sempre”, afferma il rapporto sui nuovi siti scoperti.
Si evoca un lampante nervosismo nella divulgazione di questi rapporti: a confermare come la tensione tra Stati Uniti e Cina sia giunta ad un punto di quasi non ritorno sono state le parole di Joe Biden che, martedì, in un discorso all’ufficio del direttore dell’Intelligence nazionale (ODNI), ha evidenziato le crescenti “minacce” poste in essere dalla Russia e da Pechino alla sicurezza internazionale degli Stati Uniti, sottolineando che un attacco informatico di larga portata potrebbe portare ad una guerra effettiva.
“Penso che… se finiamo in una guerra, una vera e propria guerra di tiro con una grande potenza, avverrà come conseguenza di una violazione informatica di grande entità e stanno aumentando esponenzialmente le capacità in tal senso” ha affermato Biden.
Avvertimenti gravi e preoccupanti a cui fanno eco le parole del segretario della Difesa Usa, Lloyd Austin che lunedì, nel corso di una visita ufficiale nel sud est asiatico, ha dichiarato che “gli Stati Uniti non cercano lo scontro con la Cina”, ma “non si tireranno indietro se un confronto diventerà inevitabile” specificando, come “il mancato impegno di Pechino a risolvere le dispute in maniera pacifica e a rispettare lo stato di diritto non si manifesta solo in mare. Basti vedere le aggressioni contro l’India, le attività militari destabilizzanti nei confronti del popolo di Taiwan, il genocidio e i crimini contro l’umanità commessi nei confronti dei musulmani uiguri nello Xinjiang”.
A preoccupare Washington sono elementi che la Cina stessa considera come suoi affari interni (vedi Taiwan ed isole contese nel mar cinese meridionale), dove secondo Tom Fowdy, scrittore e analista britannico di politica e relazioni internazionali su RT, la possibilità di dialogo è completamente affossata da ciò che Pechino “percepisce come una palese mancanza di rispetto per i propri interessi da parte degli Stati Uniti che sono decisi a perseguire l’egemonia e la concorrenza contro di essa a tutti i costi”.
Una delle ultime provocazioni è avvenuta il 12 luglio, quando il cacciatorpediniere missilistico statunitense USS Benfold ha navigato vicino alle contese isole Paracel, un gruppo di 30 isole, in cui Pechino ha attualmente 20 avamposti, rivendicate da Cina, Vietnam e Taiwan. Sulla questione delle presunte persecuzioni degli Uiguri in Cina, inoltre, è opportuno ricordare le parole di Lorens Wilkenson, colonnello in pensione dell’esercito degli Stati Uniti ed ex capo di Stato maggiore del Segretario di Stato americano Colin Powell, quando già nel 2018, in un convegno al Ron Paul Institute’s, aveva dichiarato che la Cia avrebbe voluto destabilizzare la Cina e il modo migliore per farlo sarebbe stato quello “di fomentare disordini e unirsi agli Uygur (nello Xinjiang) per fare pressione sui cinesi Han di Pechino dall’interno piuttosto che dall’esterno”.

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Era già stato annunciato due anni fa da quale direzione sarebbe arrivata la destabilizzazione, e quale nemico sarebbe stato additato come potenza “aggressore”, in quanto aggredita. Anche sulle pagine del Global Times, quotidiano ufficiale del partito Comunista cinese, si percepisce in queste ore un nervosismo crescente: oltre ai rimandi delle ultime dichiarazioni di Biden e Austin, in un editoriale sono citate le pubblicazioni di Michele Flournoy, ex sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti per la politica nell’amministrazione Obama, che nel 2020 aveva sostenuto la necessità di sviluppare capacità militari nel Pacifico in modo da “affondare tutte le navi militari, i sottomarini e le navi mercantili cinesi nel Mar Cinese Meridionale entro 72 ore”. Rispetto alle velate minacce di guerra occidentali nell’editoriale si auspica che la Cina rafforzi le sue unità missilistiche terrestri che possano colpire grandi navi da guerra statunitensi nel Mar Cinese Meridionale in una guerra. “Possiamo espandere massicciamente questa forza in modo che, se gli Stati Uniti provocano uno scontro militare nel Mar Cinese Meridionale, tutte le sue grandi navi saranno prese di mira contemporaneamente da missili terrestri” prosegue l’editoriale, che in seguito conclude con questo ammonimento: “Dobbiamo convincere il mondo nel prossimo futuro che la Cina non provocherà gli Stati Uniti, ma se gli Stati Uniti verranno a combattere la Cina nello Stretto di Taiwan o nel Mar Cinese Meridionale, il PLA avrà la capacità sufficiente per sconfiggerli”.
Siamo già oltre l’orlo del precipizio. Nessuno sembra accorgersi di come, dietro i toni diplomatici di un sipario già poco rassicurante, all’effettivo oramai l’unica possibilità di dialogo consista nel raggiungere il più velocemente possibile la condizione di mutua distruzione assicurata. Ed è difficile credere che gli Usa, senza colpo ferire, lasceranno che il loro principale rivale raggiunga l’equilibrio strategico in tal senso.

Tratto da: Antimafiaduemila

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