I cigni neri e il panico planetario

I cigni neri e il panico planetario

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Tempo di lettura: 3 min


(dI Pepe Escobar)

Sembrerebbe proprio che il mondo sia sotto l’incantesimo di una coppia di cigni neri: un crollo di Wall Street dovuto ad una presunta guerra petrolifera tra la Russia e Casa Saud, a cui si aggiunge la diffusione incontrollata del Covid-19, una combinazione che potrebbe causare un completo “cross-asset pandemonium,” come preconizzato da Nomura.
Oppure, come suggerisce l’analista tedesco Peter Spengler, qualunque cosa fossimo riusciti ad evitare riducendo le tensioni nello Stretto di Hormuz, “ora potrebbe arrivarci addosso attraverso le forze di mercato.”

Cominciamo con ciò che è realmente successo venerdì scorso a Vienna, dopo cinque ore di discussioni relativamente tranquille. Quello che, di fatto, si è trasformato in un crollo dell’OPEC+ è stato il colpo di scena che ha cambiato le carte in tavola.
L’OPEC+ include Russia, Kazakistan e Azerbaigian. In sostanza, dopo aver subito per lunghi e duri anni i prezzi voluti dall’OPEC, il risultato di una continua pressione degli Stati Uniti sull’Arabia Saudita, Mosca, dopo aver pazientemente ricostruito le proprie riserve di valuta estera, ha visto la perfetta finestra di opportunità per reagire e colpire l’industria americana dello scisto.
Le azioni di alcuni di questi produttori statunitensi sono precipitate anche del 50% nel “lunedi nero.” Il fatto è che [questi produttori] non possono sopravvivere con un prezzo al barile intorno ai 30 dollari, ed è qui che andrà a finire. Dopodichè, tutte queste aziende affogheranno nel debito.
Il barile di greggio a 30 dollari dovrebbe essere considerato un prezioso pacchetto regalo ed uno stimolo per un’economia globale in subbuglio, soprattutto dal punto di vista degli importatori e dei consumatori di petrolio. Questo è ciò che la Russia ha reso possibile.
E lo stimolo può durare per un bel po’. Il Fondo Sovrano russo ha chiarito che ha abbastanza riserve (per oltre 150 miliardi di dollari) per coprire un deficit di bilancio per sei/dieci anni, anche con il petrolio a 25 dollari al barile. Goldman Sachs ha già messo in preventivo la possibilità del Brent a 20 dollari al barile.
Come sottolineano i trader del Golfo Persico, la chiave di quella che negli Stati Uniti viene percepita come una “guerra del petrolio” tra Mosca e Riyad riguarda soprattutto i derivati. In sostanza, le banche non saranno in grado di pagare gli speculatori che hanno stipulato assicurazioni in derivati a copertura di un grosso calo del prezzo del petrolio. Un ulteriore stress deriva dal fatto che i trader si sono fatti prendere dal panico per il Covid-19, che si sta diffondendo in tutta una serie di nazioni palesemente impreparate a gestirlo.

Guardiamo al gioco dei Russi

Mosca deve aver già anticipato che le azioni russe scambiate a Londra, come Gazprom, Rosneft, Novatek e Gazprom Neft, sarebbero crollate. Secondo il comproprietario di Lukoil, Leonid Fedun, la Russia potrebbe perdere, da ora in poi, fino a 150 milioni di dollari al giorno. La domanda è per quanto tempo una simile perdita sarà considerata accettabile.
Tuttavia, sin dagli inizi, la posizione di Rosneft è sempre stata che, per la Russia, il vecchio accordo con l’OPEC+ era “insignificante” e stava solo “spianando la strada” per il petrolio da scisto americano.
L’opinione comune tra i giganti russi dell’energia era che, con l’attuale configurazione del mercato, una enorme “domanda di petrolio negativa,” uno “shock di approvvigionamento” positivo e nessuna variabilità di produzione avrebbero inevitabilmente fatto crollare il prezzo del petrolio. Erano alla finestra, impotenti, mentre gli Stati Uniti vendevano già il loro greggio ad un prezzo inferiore rispetto a quello dell’OPEC.
La mossa di Mosca contro l’industria americana del fracking è la rivincita per le interferenze dell’amministrazione Trump nei confronti del Nord Stream 2. L’inevitabile, rapida svalutazione del rublo è stata messa in preventivo.
Tuttavia, ciò che è accaduto dopo Vienna ha, essenzialmente, poco a che fare con una guerra commerciale tra Russia e Arabia Saudita. Il ministero dell’energia russo è stato flemmatico: circolare, qui non c’è niente da vedere. Riyadh, in modo significativo, ha fatto capire che un accordo all’interno OPEC+ potrebbe essere ridiscusso in un prossimo futuro. Uno scenario plausibile è che questo tipo di terapia d’urto andrà avanti fino al 2022, quando la Russia e l’OPEC ritorneranno al tavolo delle trattative per elaborare un nuovo accordo.
Non ci sono dati definitivi, ma il mercato petrolifero rappresenta meno del 10% del PIL russo (era il 16% nel 2012). Le esportazioni di petrolio dell’Iran, nel 2019, sono precipitate di un enorme 70% e, nonostante questo, Teheran è riuscita a sopravvivere. In ogni caso, il petrolio rappresenta oltre il 50% del PIL saudita. Riyad ha bisogno di vendere petrolio a non meno di 85 dollari al barile per pagare le bollette. Il bilancio saudita per il 2020, con un prezzo del greggio di 62-63 dollari al barile, ha ancora un deficit di 50 miliardi di dollari.
Aramco afferma che, a partire dal 1° aprile, immetterà sul mercato non meno di 300.000 barili di petrolio al giorno oltre la sua “massima capacità sostenibile.” Dice che sarà in grado di produrre ben 12,3 milioni di barili al giorno.
I trader del Golfo Persico affermano apertamente che ciò non è sostenibile. Ma lo è. Casa Saud, disperata, attingerà alle proprie riserve strategiche per scaricare il prima possibile quanto più petrolio possibile e continuare la guerra dei prezzi. La (grassa) ironia è che la vittima di guerra più importante è un settore industriale del suo protettore americano.


Tratto da un articolo di Pepe Escobar

Fonte: Giorgio Bianchi

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