La campana sta suonando per il neoliberismo

La campana sta suonando per il neoliberismo

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I segnali sono ormai tanti, difficile non vederli e capirli. Solo l’Unione Europea resta ancora cieca e sorda, pure se costretta a sua volta a qualche timida “innovazione” che fino a un anno fa considerava “eresia” (una minima condivisione del debito comunitario, regolata ferreamente nel Recovery Fund, ma finalizzata ad esacerbare la concorrenza interna).

Bastava la gestione della pandemia per chiarire che il sistema dominante negli ultimi 30 anni era ormai fallito, incapace di salvaguardare la popolazione nei paesi più avanzati.

Per il neoliberismo, “sfrenato” o meno, è giunta l’ora. Vedremo quanto ci vorrà, e a quale prezzo, per celebrarne il funerale.

L’ultimo segnale, particolarmente esplicito, viene dagli Stati Uniti, dove il nuovo segretario al Tesoro, Janet Yellen (ex presidente della Banca Centrale, una “collega” di Draghi), ha definito la principale proposta che porterà al G20: l’adozione di una corporate minimum tax nei confronti delle società multinazionali.

In pratica, si propone di adottare la stessa aliquota fiscale in qualsiasi paese del mondo, in modo da interrompere la concorrenza tra Stati nell’”attirare” le multinazionali. Un giochino che va avanti da oltre 30 anni e che ha svuotato le casse di quasi tutti gli Stati, riempendo al contrrario quelle delle società private (e dei loro manager).

Come ricorda Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza di oggi, nel 2018 le multinazionali Usa pagavano la miseria di 271 miliardi, un terzo in meno dei 365 scuciti appena due anni prima. E dire che proprio in quell’anno le stesse società avevano impegnato cifre ben maggiori soltanto per i buyback (riacquisto in Borsa di azioni proprie, in modo da far salire il prezzo e dnque anche la capitalizzazione).

Parte di questo calo era certamente imputabile a Donald Trump, che aveva portato l’aliquota fiscale per società dal 38 al 21%. Ma il calo del contributo delle società alle entrate fiscali Usa era in calo da decenni, come risultato di pratiche tutt’altro che innocenti. “Continuo trasferimento all’estero delle sedi legali, ma soprattutto il fenomeno della estero-vestizione: per non pagare le imposte in America si simula l’incorporazione da parte di altre di diritto straniero”.

Del resto bisogna ricordare che molti dei ministri e vicepresidenti degli ultimi 30 anni erano manager aziendali che, terminato il mandato, tornavano a fare quel mestiere (clamoroso l’esempio di Dick Cheney, vicepresidente con Bush junior ed ex ceo di Halliburton, cui concesse contratti favolosi in Iraq per poi tornare a guidare la società).

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Tutti contenti per tanto tempo, ma ora bisogna fare i conti col declino statunitense, in affanno davanti alla poderosa ascesa cinese. Dunque servono entrate sicure, perché non si può rilanciare un’economia di quelle dimensioni soltanto stampando soldi (i quantitative easing della Fed finiscono a Wall Street, non nell’economia reale) o facendo debito pubblico.

L’amministrazione Biden, per questo, sta lavorando ad un aumento delle tasse per le società, anche per non gravare soltanto sui redditi medio-bassi, la cui insofferenza è andata a gonfiare i consensi per Trump e le fila degli assalitori di Capitol Hill.

Ma questa decisione non potrebbe essere efficace se si resta nell’attuale “anarchia concorrenziale”, se un qualsiasi Stato può offrire un vantaggio fiscale maggiore di altri. “In queste condizioni di arbitraggio tra le diverse legislazioni tributarie e societarie una decisione americana di aumentare l’aliquota di imposta sui profitti di impresa non si tradurrebbe in un aumento del gettito ma in ulteriore incentivo a trasferirsi all’estero, magari portandosi via oltre alla sede fiscale anche una quota di produzione”.

Dunque gli Usa vanno al G20 a proporre una tassa societaria unica in tutto il mondo, in modo da arrestare la fuga e le delocalizzazioni. Che è poi la stessa cosa dell’arrestare il proprio declino come superpotenza.

Lo stesso problema, ancora più complicato, esiste anche sul versante ambientale, perché non è possibile imporre una “svolta green” – per quanto finta sia – se gli standard sulle emissioni imposte alle industrie manifatturiere sono variabili quanto le aliquote fiscali.

Come ricorda Salerno Aletta, “La competizione globale si è fondata in questi anni sulla riduzione continua di tutti i costi, del lavoro, finanziari e ambientali; la richiesta americana di un accordo multilaterale sugli standard minimi fiscali indica la fine della fede nel liberismo sfrenato”.

Come sempre, ogni azione comporta reazioni uguali e contrarie. Cercare un “accordo multilaterale” mentre al tempo stesso si alzano i livelli di scontro con le potenze considerate “concorrenti” (Cina e Russia, in primo luogo) espone a diverse possibilità di insuccesso. Anche se magari pensi poter usare il bastone delle sanzioni per “convincere” più facilmente ad uno scambio.

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Ma questo riguarda gli Usa e le altre potenze.

Quel che a noi deve interessare è che la campana sta suonando per il neoliberismo.

Una “tassazione mondiale unica per le società” implica un “potere pubblico” altrettanto mondiale. Non può più essere quello degli Usa; è molto difficile che se ne crei uno “concertato”, specie in tempi di crisi che esaltano gli egoismi e quindi le occasioni di conflitto.

Sotto quella esigenza di “uniformità fiscale” preme insomma il bisogno di un altro sistema di produzione e regolazione, una riduzione delle disuguaglianze abissali cui siamo abituati ma che, a lungo andare, scavano sotto i piedi di chi si sentiva dominante.

Non usciremo da questa crisi “come prima”. E’ l’unica cosa certa. Come e anche se ne usciremo, è cosa tutta da vedere…

Tratto da: Contropiano.org

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