Quale ruolo debba avere il settore pubblico nell’economia e, dunque, quali debbano essere le dimensioni dello Stato sono questioni tornate al centro del dibattito politico internazionale in seguito alla doppia crisi sistemica che ha colpito l’economia internazionale, prima con la Grande crisi finanziaria (2007-2009) e poi con lo scoppio della attuale crisi pandemica da Covid-19.
Dopo decenni di sbronza neoliberista, caratterizzati da una riduzione delle prerogative economiche assegnate all’attore pubblico, in un contesto globale votato al libero commercio, la crisi pandemica ha reso drammaticamente evidente come l’ideologia prevalente serva unicamente a portare acqua agli interessi della classe dominante e non quelli generali.
Di fronte a questo disastro, però, i cantori del neoliberismo non mollano la presa e, senza vergogna, continuano a professare la loro fede.
Recentemente, sulle pagine del Corriere della Sera è stato pubblicato un articolo con un titolo esplicito: “Uno Stato troppo pesante può bloccare l’economia”. Una frase ripetuta continuamente nei salotti liberal quasi fosse una preghiera.
L’autore inizia la sua orazione mistificando il nesso causale e temporale tra crisi e allargamento dello Stato. Se, infatti, per l’autore “le crisi coincidono con l’allargamento”, la verità è che l’allargamento del perimetro dello Stato è conseguenza della crisi.
Una necessità che viene invocata, tra l’altro, dagli stessi esponenti del pensiero liberale: la caduta della componente privata della domanda, se non fosse compensata da una crescita della domanda proveniente dal settore pubblico, causerebbe perdite di profitto della classe imprenditrice. Insomma, i conti non tornano.
Così, lo stesso autore confessa che “il problema è quello che succede dopo”, dal momento che “è difficile tornare indietro” e “ogni intervento ha conseguenze che vanno oltre le intenzioni di chi lo ha promosso”.
Quest’ultima frase rivela esattamente qual è il pensiero liberale in economia: lo Stato deve intervenire il tempo necessario che copra le perdite degli imprenditori e poi togliersi in fretta quando quest’ultimi sono pronti per approfittare delle opportunità che si aprono a seguito della crisi.
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Dunque, l’autore è preoccupato che il “pubblico impiego diventi pressoché l’unico serbatoio di opportunità” e che la pandemia lasci in eredità all’economia italiana una forte presenza dallo Stato in un contesto di crescita stagnante in cui il settore privato arranca.
Rispetto alla prima ipotesi si possono fare due considerazioni. In primis, la stagnazione dell’economia italiana ed europea negli ultimi decenni è stata accompagnata da una crescita significativa della precarietà lavorativa, specialmente nel settore privato.
Non si può dunque negare il ritorno in auge dell’impiego pubblico tra coloro che sono alla ricerca di un lavoro, essendo questo maggiormente in grado di garantire quella stabilità indispensabile in certe fasi della vita lavorativa (e non) delle persone.
Tuttavia, come abbiamo più volte sottolineato, questo stato di cose è costantemente utilizzato per mettere i lavoratori gli uni contro gli altri e per avanzare proposte finalizzate ad appianare queste disparità, non aumentando diritti e stabilità per i lavoratori del settore privato, ma impartendo maggiore precarietà ai dipendenti pubblici.
Esattamente quello che tale Mingardi, l’autore dell’articolo che abbiamo preso come riferimento, auspica in quanto la richiesta del ridimensionamento dello Stato si inserisce proprio in questo solco di attacco e svilimento del pubblico impiego.
C’è un’ulteriore ragione per cui i Mingardi di questo mondo mettono nel mirino il settore pubblico. Infatti, l’occupazione pubblica di prima istanza – ossia l’impiego pubblico diretto alla produzione e alla fornitura di beni e servizi ritenuti essenziali dalla collettività, i quali non possono conseguentemente essere abbandonati alla logica del profitto – costituisce lo strumento fondamentale attraverso cui lo Stato interviene sulla struttura dei salari.
Di conseguenza, il continuo ridimensionamento del settore pubblico italiano – secondo dati ISTAT, una riduzione di 315 mila addetti tra 2007 e 2019 – non provoca esclusivamente una perenne scarsità negli organici della PA e dunque una riduzione nell’efficacia della macchina pubblica, ma rappresenta anche il motore della costante erosione dei salari reali.
In altre parole, il Mingardi non sta attaccando soltanto il settore pubblico ma tutta la classe lavoratrice, per soddisfare l’insaziabile fame di profitto della classe dominante.
Per quanto riguarda la seconda ipotesi ventilata da Mingardi, ossia il passaggio strutturale a un’economia trainata dallo Stato, l’articolo in sé è davvero poca cosa, soprattutto se consideriamo che esponenti ben più influenti dell’establishment europeo hanno riconosciuto che la pandemia ha soltanto accelerato questa tendenza internazionale, provando a delinearne le conseguenze politiche per l’Unione europea.
Qualche settimana fa, per esempio, Romano Prodi evidenziava il legame tra il ripensamento a livello internazionale delle politiche commerciali e il ruolo dello Stato. Secondo il nostro, il superamento da parte degli Stati Uniti della dottrina del libero commercio assegnerà carattere sistemico a “scelte protezionistiche che erano da molti ritenute un’estemporanea decisione del presidente Trump” con conseguenze epocali non solo sul commercio internazionale, ma sul funzionamento di tutti i sistemi economici.
Ricordiamo però che negli Stati Uniti le circostanze eccezionali fanno sì che la classe dominante possa abbandonare il regime di austerità fiscale, ancora necessario ai loro corrispettivi europei, senza temere alcun rischio di modificare i rapporti di forza con la classe lavoratrice.
Anche i più strenui difensori dell’austerità si sono fatti promotori di politiche fiscali espansive e dell’intervento pubblico poiché, come abbiamo scritto in principio dell’articolo, la crisi pandemica minaccia i profitti d’impresa e il sistema stesso. Mingardi, nel suo appello, finge di non sapere che l’intervento pubblico, di per sé, non rappresenta alcuna garanzia di un socialismo prossimo o, quanto meno, un miglioramento delle condizioni dei lavoratori e della classe subalterna nel suo insieme.
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Un esempio di intervento pubblico sterile, dal punto di vista dei rapporti di forza tra le classi, è dato dal Next Generation EU ossia uno spauracchio quantitativamente risibile e che serve esclusivamente o quasi come strumento disciplinante.
Dunque, spetta a noi ribaltare il tavolo, e dove i Mingardi chiedono meno stato, intendendo in realtà uno Stato ancora di più al servizio del profitto, noi dobbiamo rispondere con più Stato. E più Stato significa innanzitutto, nell’imminente, gestire questa crisi pandemica in modo radicalmente diverso, evitando che questa pesi sulle spalle della classe lavoratrice.
Queste potrebbero essere le premesse per perseguire macro-obiettivi come la piena occupazione, accompagnata da una forte crescita dei salari reali, eliminando questo odioso stato di precarietà in cui hanno confinato la classe lavoratrice.
Inoltre, sarebbe l’occasione per rimettere al centro la programmazione pubblica e la politica industriale, guidare un vero e proprio processo di transizione ecologica, che non sia un semplice greenwashing, assicurare una sanità pubblica che possa essere alla portata di tutti e via discorrendo quella lunga lista di diritti per cui è giusto lottare.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti –
Tratto da: Contropiano.org
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