Questione carceri, declino di Saviano

Questione carceri, declino di Saviano

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di Giorgio Bongiovanni


Ieri mattina su tre quotidiani, La Repubblica, Il Corriere della Sera e La Stampa, le penne di Roberto Saviano, Sandro Veronesi e Luigi Manconi si sono espresse a sostegno della battaglia di Rita Bernardini, leader del Partito Radicale e di Nessuno Tocchi Caino (dal 10 novembre scorso in sciopero della fame assieme a lei anche altri 500 detenuti e in staffetta altri cittadini), per chiedere al governo e alle autorità pubbliche di adottare provvedimenti in grado di ridurre in misura significativa il sovraffollamento delle prigioni italiane.
In particolare ci siamo soffermati nell’editoriale del collega e scrittore di “Gomorra“, di cui in passato abbiamo condiviso più volte le battaglie, come ad esempio le aspre critiche al Governo, attuale e precedente, sull’operato messo in atto sui migranti, anche difendendolo di fronte agli attacchi dell’ex ministro degli Interni Matteo Salvini, che annunciava tagli alle scorte, e così via.
Da qualche tempo a questa parte, però, siamo lontani anni luce rispetto alle posizioni che, da qualche mese a questa parte, lo stesso ha preso sul tema delle carceri.
Ancora una volta il pretesto per parlare dell’argomento, così come era avvenuto nella scorsa primavera, è dato dalla pandemia.
Il carcere – ha sostenuto Saviano nel suo editoriale – è oggi il luogo più affollato d’Italia e la cella può essere lo spazio più congestionato e patogeno dell’intero sistema penitenziario. Non stupisce, dunque, che, oggi, tra i detenuti, i positivi al Covid siano 826 e, tra il personale amministrativo e di polizia, 1042“.
Proseguendo nelle sue argomentazioni lo scrittore ha evidenziato la necessità di chiedersi “come pensiamo di poter accettare che i rei vengano trattati come rifiuti da chiudere in discariche sociali” e ha reclamato come tutti i detenuti, ma anche gli agenti della polizia penitenziaria, gli educatori, i volontari i mediatori culturali, e i direttori degli istituti penitenziari debbono essere rispettati i diritti fondamentali dell’individuo, tra cui c’è sicuramente il diritto alla salute. Fin qui tutte considerazioni su cui può essere giusto dibattere, soprattutto se si considerano i tanti poveracci che si trovano davvero a vivere in condizioni disumane all’interno delle carceri italiane.
Ma è a questo punto che nel ragionamento subentrano argomentazioni insensate, se non folli, a prescindere dal dato che anche nelle sezioni dei 41bis di alcune carceri si siano manifestati casi di contagio da Covid-19.
Perché sono proprio i dati ufficiali a dimostrare il contrario. Sugli attuali 53.720 detenuti (dati del 24 novembre), i morti sono 3 e i positivi 826 (l’1,5% del totale).

Fonte: Ilprimatonazionale

Ben 772 di questi sono asintomatici, 32 paucisintomatici curati nelle strutture carcerarie e 22 sintomatici in ospedale. Gli agenti penitenziari positivi sono 970 su circa 36mila, di cui 871 asintomatici e 99 sintomatici. Questi non entrano affatto in carcere, ma sono isolati a casa, in caserma o in ospedale. Quindi il ragionamento sviluppato non ha senso, ancor di più se si considerano i controlli che vengono continuamente effettuati sull’intera popolazione carceraria.
Ma in particolare diventa assurda la richiesta “di allargare la platea dei beneficiari della detenzione domiciliare speciale prevista nel decreto Ristori a coloro che devono espiare una pena, anche se costituente parte residua di maggior pena, non superiore a 24 mesi, senza esclusioni derivanti dal titolo di reato“.
Dunque, anche per i mafiosi.
Una richiesta inaccettabile e sconcertante tenuto conto che a proporlo è anche chi dalla mafia, in particolare la Camorra, ha subito minacce.

No alle scarcerazioni dei boss

Ovviamente la salute dei detenuti è fondamentale, ma uno Stato serio non può permettersi che certi soggetti appartenenti a quelle associazioni criminali, che hanno commesso reati efferati (omicidi, estorsioni, corruzioni, traffico di stupefacenti, stragi…), ottengano certi benefici.
Sul punto si è espresso nei mesi scorsi il consigliere togato Sebastiano Ardita, non certo l’ultimo arrivato in termini di carcerario in quanto per nove anni è stato a capo dell’ufficio detenuti del Dap.
Le valutazioni del tempo, in risposta alle scarcerazioni che i magistrati di sorveglianza ed i presidenti delle Corti stavano disponendo anche per boss mafiosi, sono tutt’oggi valide.
Quello che bisognava garantire era una condizione di sicurezza sotto il profilo sanitario-epidemiologico che riguardava la generalità di detenuti rispetto al rischio di contagio e i singoli sottoposti a cure mediche essendo soggetti malati” aveva spiegato Ardita in un dibattito organizzato dalle Agende Rosse.
Se da una parte è erroneo rappresentare che in carcere non è possibile garantire le dovute cure, ancor più grave appare la mancata distinzione tra i detenuti, mettendo tutti sullo stesso piano.
Ardita aveva ben spiegato i rischi che si trovano sul piatto della bilancia: “La questione che riguarda la compatibilità con il regime carcerario di un detenuto malato è molto importante. Da una parte della bilancia pende la salute dell’individuo che in carcere potrebbe non avere gli stessi presidi sanitari che troverebbe all’esterno. Sull’altra parte del piatto della bilancia, invece, c’è il pericolo che questa persona una volta uscita dal carcere possa compiere gravi atti e addirittura riorganizzare l’organizzazione mafiosa”. Come Stato, dunque, la vera risposta non passa nella scarcerazione, ma nella realizzazione di un carcere civile che rispetti i diritti mantenendo la detenzione.

Come ricordato da svariati magistrati il carcere è un baluardo, un luogo nel quale le persone pericolose sono tenute distanti dalla società e sono libere di essere rieducate per poi rientrare in società in condizioni diverse. Ma vanno fatti i distinguo. Perché altrimenti si fa il gioco di quei mafiosi che, anche per un solo giorno di libertà, riacquisirebbero tutto il loro prestigio e potere.
E lo aveva ricordato recentemente il Consigliere togato Nino Di Matteo, intervenuto su La7: “Chi entra a far parte di un’organizzazione mafiosa mette nel conto di potere incappare in problemi con la giustizia e in una condanna detentiva. Non ha paura del carcere. Temono il carcere a vita, una detenzione troppo lunga o una detenzione con modalità tali da interrompere i loro rapporti con il mondo esterno, da metterli in condizione di non poter più fare i mafiosi mentre sono detenuti. Ecco perché hanno ciclicamente condotto delle battaglie strategiche, anche a colpi di attentati, di ricatti, di rivolte organizzate per ottenere degli scopi precisi: da un lato l’abolizione dell’ergastolo, dall’altro lato l’abolizione o l’attenuazione del 41 bis, da un altro lato ancora l’ottenimento di arresti o detenzione domiciliare che consentissero ai mafiosi, anche durante l’esecuzione della pena, di tornare a casa, di tornare a comandare. E ciò è avvenuto, tante volte“.

L’improprio utilizzo del caso Bonafede

Evidentemente certe argomentazioni non interessano a Saviano che erroneamente ha utilizzato Di Matteo in maniera impropria per condurre la propria polemica con Bonafede (“Il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, non sembra essersi mai più ripreso, in termini di serenità politica, dai postumi della violentissima polemica con il Consigliere Nino Di Matteo“).
Così Di Matteo, ancora una volta, finisce tirato in ballo in maniera gratuita, anche laddove non c’entra nulla.
Ma si resta stupiti fino ad un certo punto.
Del resto in tanti anni Saviano, un tempo cronista di strada ed oggi offuscato dal torpore della fama e del successo, non ha mai fatto commenti su sentenze come quella della trattativa Stato-mafia o schierarsi a difesa di quei magistrati che hanno avuto il coraggio di non guardare in faccia a nessuno, scontrandosi con il potere.
Forse si spiega così lo “schieramento” con tanto di appello per scarcerare tutti coloro che devono ancora espiare un residuo pena di due anni, senza distinzione per il titolo di detenzione? Domani dovremo aspettarci un nuovo schieramento per togliere il 41 bis?
Allora sì che gli applausi dei mafiosi diverrebbero una standing ovation.
E sarà troppo tardi per accorgersi del favore fatto ai boss.

Tratto da: Antimafiaduemila

Italia