‘Ndrangheta al Nord. Grande Aracri e le operazioni contro la longa manus di Cutro nel Nord

‘Ndrangheta al Nord. Grande Aracri e le operazioni contro la longa manus di Cutro nel Nord

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Costole di Aemilia. Sangue, denaro e voti. La sentenza del processo ‘Grimilde’ del 26 ottobre conferma l’impianto accusatorio delle inchieste delle Dda del Nord scaturite dall’operazione attuata nel 2015: altrettanti duri colpi inflitti alla cosca Grande Aracri di Cutro e ai suoi fiancheggiatori nella “zona grigia” tra Reggio Emilia, Parma, Piacenza, Mantova e Cremona

Ogni vicenda di mafia ha il suo punto di non ritorno. Per la ‘ndrangheta cutrese trapiantata nel reggiano è stato il caso dell’operazione ‘Aemilia’ scattata in quel fatidico 28 gennaio 2015. Un’ordinanza di applicazione di misure cautelari di 1300 pagine eseguita nei confronti di oltre 180 persone (più una richiesta integrativa nei confronti di altre 23), di cui 160 finiti in carcere. A coordinare l’indagine la Dda di Bologna, che da sola ha disposto 117 arresti. 46 invece le misure richieste allora dalle Procure di Catanzaro e Brescia.
L’operazione mirava a disarticolare l’organizzazione mafiosa consolidatasi nei territori a cavallo tra Reggio Emilia, Modena, Parma, Piacenza, coinvolgendo decine di presunti promotori, organizzatori, affiliati della locale di ‘ndrangheta originaria di Cutro (Crotone), a cominciare dal potentissimo capo-crimine Nicolino Grande Aracri.

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È costui – secondo le risultanze processuali corroborate dalle dichiarazioni di svariati pentiti – il vero artefice di un sodalizio criminale, cementato anche da solidi legami familistici (su modello del ‘crimine’ di Polsi), che nei suoi intenti avrebbe dovuto estendersi alle province di Cosenza, Catanzaro, Crotone, Vibo Valentia, in modo da renderle strutturalmente autonome dalle cosche di Reggio Calabria. E da costituire al Nord – come di fatto è accaduto – un contropotere tentacolare in grado di interfacciarsi, grazie a una formidabile forza “colonizzatrice”, con tutti i livelli della vita economica, sociale, istituzionale, politica del territorio.
Del radicamento della cosca Grande Aracri a Reggio Emilia già si sapeva in seguito alle operazioni ‘Scacco Matto’, ‘Grande Drago’ ed ‘Edilpiovra’ dei primi anni 2000, intervenute nel pieno delle faide tra ‘ndrine rivali.
Ci sono voluti tuttavia due decenni di processi per portare definitivamente alla luce, col suggello del giudicato, quanto l’organizzazione aveva costruito nell’arco di altrettanti decenni: un’oscura rete di rapporti criminali di natura associativa radicata tra il mantovano e il cremonese (processo ‘Pesci’), un collaudato sistema di faide strumentale a “far capire chi comanda” tra i clan a Brescello (processo ‘Aemilia 1992’), fino alle incestuose convergenze d’interessi con la P.A. e, in generale, con il mondo istituzionale e politico (processo ‘Grimilde’).
Armi, droga, rapine, estorsioni, usura, incendi, ricettazione e riciclaggio, bancarotta fraudolenta e false fatturazioni, gestione di settori strategici quali edilizia, movimento terra, ristorazione, smaltimento di rifiuti, lavori di ricostruzione nelle zone terremotate, scambio elettorale politico-mafioso.
Quello emerso vent’anni fa – e rimasto immutato anche quindici anni dopo – è un intricato groviglio di potere preordinato alla commissione di delitti di stampo mafioso e alla gestione consorziata di attività economiche, tanto illegali quanto legali, attraverso una strategia di intimidazione e controllo del territorio.
Ma la prima germinazione dell’organizzazione criminale in Emilia risale al 1982, allorché il capo-bastone Antonio Dragone – per tutti il “bidello della scuola di Cutro” – viene trasferito nel piccolo Comune di Quattro Castella (Reggio Emilia) per scontarvi una pena in regime di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno. È la prima condanna per il boss, dopo il processo subito nel 1980 (nel quale viene assolto) per l’omicidio di Vittorio Colacino, una delle sei vittime della faida del ’72 contro l’emergente famiglia cutrese degli Oliverio.
A colmare il vuoto di potere lasciato da Dragone, quando ancora nel crotonese domina la locale dei Vrenna, è il giovane boss Nicolino ‘Don Nicola’ Grande Aracri. Il quale, forte dell’alleanza coi Nicoscia di Isola di Capo Rizzuto (prima sodali degli Arena e dei Dragone) si trova alla soglia degli anni ’80, nel ruolo di referente di Antonio Ciampà nel crotonese, a ereditare – scrivono Nando dalla Chiesa e Federica Cabras in Rosso Mafia (Bompiani, 2019) – una «struttura mafiosa all’epoca ancora in via di formazione». Struttura che di lì a poco avrebbe trasformato.

Capo-clan spregiudicato e intraprendente, dalla metà degli anni ’80 accresce la sua influenza ritagliandosi «una personale fetta di autonomia» nella gestione del traffico di droga. Estende ben presto la sua zona d’influenza in Emilia-Romagna, Lombardia, Liguria, ma anche in Germania, Svizzera e Francia, dove sono emigrati alcuni fidati collaboratori. Le faide continuano, e vedono contrapposti i Grande Aracri-Dragone-Ciampà-Sarcone-Arena-Greco-Macrì ai Vasapollo e ai Ruggiero: il 21 settembre e 22 ottobre 1992 vengono freddati nelle rispettive abitazioni di Reggio Emilia e Brescello (dove stavano scontando i domiciliari) Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiero. Solo il 2 ottobre scorso, e per il solo omicidio di Ruggiero, è arrivata la condanna all’ergastolo nei confronti di Nicolino Grande Aracri, nell’ambito del processo Aemilia 1992.
Intanto si intensificano i suoi rapporti con Totò Dragone, del quale diviene ufficialmente il «braccio destro». Al punto da indurre il vecchio boss – in seguito al primo arresto di Nicolino ‘Mano di Gomma’ (nel ’95, per porto abusivo di armi e munizioni da guerra) – ad accettare lo stesso Grande Aracri quale compare d’anello del proprio figlio, Raffaele Dragone.
Al momento della scarcerazione di questi, però, le cose cambiano: Grande Aracri rifiuta di fare da testimone di nozze a Raffaele, «che aveva deciso di prendere in sposa la vedova del fratello Salvatore, morto per cause naturali». La tecnica, dunque, torna ad essere quella dell’«affronto».
Ne seguono nuovi fatti di sangue: per mano dei Nicoscia, che appoggiano Grande Aracri, muoiono lo stesso Raffaele nel 1999, Antonio Macrì e Rosario Sorrentino – alleati di Dragone – nel 2000. È a questo punto che – secondo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Salvatore Cortese – arriva il secondo ‘schiaffo’: «nel carcere di Siano, Catanzaro, Grande Aracri Nicolino ebbe una discussione verbale con Dragone Antonio». Motivo: il rifiuto di una semplice stretta di mano – inaudito vilipendio secondo la logica mafiosa. Tra le due famiglie è guerra aperta.
Fino all’ultimo il vecchio boss vuole a mettervi la parola fine. Invano: sono passati poco meno di sei mesi dalla sua scarcerazione – giusto il tempo di rimettere in piedi il solito vecchio giro di estorsioni – quando il 10 maggio 2004 Totò Dragone viene ucciso a Cutro. Un delitto in cui non è difficile intravedere la firma di Grande Aracri, spalleggiato dai Nicoscia e da una consorteria sempre più folta di uomini di fiducia. Per questo delitto sarà condannato in via definitiva all’ergastolo il 5 giugno 2019 nell’ambito del processo ‘Kyterion’.
Grazie alla sua fama di boss sanguinario e al tempo stesso di «primo ‘ndranghetista moderno», Grande Aracri continua a tessere la sua trama di affari illeciti: guadagnato il consenso dei piccoli imprenditori finalmente sgravati dal pizzo, comincia in realtà a praticarlo ai «titolari dei villaggi turistici della costa ionica, nelle province di Crotone e Catanzaro», coniugando peraltro all’estorsione un sofisticato «sistema di false fatturazioni». Ma soprattutto quello che aumenta è il suo prestigio. Con la dote di ‘crimine internazionale’, Grande Aracri diviene uno dei boss più “rispettabili” all’interno dell’organizzazione: «gli unici ad averlo nella provincia di Crotone – dichiara il pentito Cortese – sono lui e Pasquale Nicoscia grazie ad Antonio Pelle di San Luca».
Ma il cancro mafioso delle ‘ndrine di Cutro è solo all’inizio della sua metastasi: di lì a poco metterà le mani sugli appalti. L’eolico è ciò su cui punta. È poi la volta dello smaltimento dei rifiuti. Sullo sfondo l’accordo di Grande Aracri per la spartizione a 50 e 50 dei profitti illeciti di Cutro con i capi dei Vrenna: inizialmente con Paolo Corigliano e Pino Vrenna, in seguito con Luigi Bonaventura (divenuto collaboratore di giustizia nel 2006). Si susseguono omicidi, ritorsioni, scoppi di violenza tra due schieramenti opposti: da un lato i Grande Aracri-Vrenna-Nicoscia-Capicchiano-Russelli, dall’altro i Dragone e gli Arena, ma anche i Megna e i Trapasso.
Anche in seguito all’arresto (il secondo) di Nicolino Grande Aracri, nell’ambito dell’inchiesta Scacco Matto del 2000, il «vuoto di potere» in questo modo venutosi a creare tanto a Cutro quanto «nella folta colonia da tempo insediatasi in Emilia» – si legge nell’ordinanza – viene «colmato con la nomina di nuovi referenti che, per un lungo periodo, [vengono] incaricati di trasmettere agli affiliati liberi le direttive di Grande Aracri dal carcere». Grande Aracri si trova infatti nella casa circondariale di Opera.
Così emerge dall’inchiesta nata dall’operazione Edilpiovra del 2003, che conduce fra l’altro all’arresto del boss Francesco Grande Aracri (fratello di Nicolino), condannato poi per estorsione, e arrestato nuovamente a Brescello il 25 giugno 2019 insieme ai figli Salvatore e Paolo e all’ex funzionario dell’Agente delle Dogane e Presidente del Consiglio comunale di Piacenza Giuseppe Caruso (Fd’I), nell’ambito dell’operazione Grimilde coordinata dalla Dda di Bologna, e condannato in primo grado il 26 ottobre 2020 per associazione mafiosa. Il marchio di fabbrica è sempre lo stesso: usura, estorsione, riciclaggio di denaro sporco in villette ed esercizi commerciali servendosi di prestanomi a Brescello (comune già sciolto per mafia nel 2017). Intanto però il processo Scacco Matto di Catanzaro giunge a sentenza irrevocabile il 12 dicembre 2006: per Nicolino Grande Aracri viene riconosciuto il 416-bis.


Le operazioni ‘Pandora’ del 2006 e ‘Idra’ del 2008 finiscono il lavoro, colpendo le ‘ndrine Arena e Nicoscia a Isola di Capo Rizzuto. Ma è sempre nella pancia di Aemilia che il lavoro degli investigatori e le deposizioni dei pentiti consentono di rinvenire la tecnica collaudata del «cordone politico» di voti dalla regione alla provincia. Voti di cui le ‘ndrine erano solite fare incetta nelle varie tornate elettorali. Tutto gestito alla luce del sole, come del resto gli introiti reinvestiti in attività economiche legali, eccetto i risparmi incamerati nella «bacinella» e spartiti tra gli associati in un secondo momento.
Anche i lavori per la costruzione del Cara di Sant’Anna – il centro di accoglienza per migranti di Isola di Capo Rizzuto – sono presi di mira.
Occasione perfetta per nuovi affari, come colgono le due famiglie storicamente rivali degli Arena e dei Nicoscia. Dopo decenni di lotte intestine, infatti, i rispettivi capi deliberano di riconciliarsi per gestire in consorzio il fiorente mercato dell’immigrazione. E, in parallelo, viene conquistato il business dello smercio e della distribuzione di farmaci: emblematico il caso dell’arresto, lo scorso 19 novembre, del Presidente del Consiglio regionale della Calabria Domenico Tallini (FI), accusato di concorso esterno e voto di scambio per aver favorito la cosca Grande Aracri tramite l’accelerazione dell’iter per il rilascio delle autorizzazioni necessarie alla costituzione di un consorzio di società farmaceutiche in cambio del sostegno elettorale della ‘ndrangheta stessa alle amministrative del 2014 (nonché dell’assunzione del figlio Giuseppe nel cda di una delle società del consorzio, la Farmaeko Srl).
Ma è in Emilia, nel solco tracciato da Totò Dragone, che la ‘ndrangheta di Cutro trova terreno fertile per i suoi affari. E lo fa dando vita a quella che il gip di Bologna descrive come un «gruppo unitario», «portatore di autonoma e localizzata forza di intimidazione derivante dalla percezione, sia all’interno che all’esterno del gruppo stesso, dell’esistenza e operatività dell’associazione nell’intero territorio emiliano», «con suo epicentro in Reggio Emilia (anche quale propaggine della “locale” di riferimento di Cutro)».
Un sodalizio criminale, quello emiliano, che ha visto come capi promotori gli ‘ndranghetisti Nicolino Sarcone, Michele Bolognino, Francesco Lamanna, Alfonso Diletto, Antonio Gualtieri e Romolo Villirillo, tutti imputati – meno Bolognino, che ha optato per il rito ordinario – insieme ad altri 66 soggetti (di cui 40 condannati) per oltre duecento capi d’accusa nel ramo del processo ‘Aemilia’ iniziato con rito abbreviato nel gennaio 2016 e conclusosi il 24 ottobre 2018 con l’emissione delle condanne definitive (a 15 anni Sarcone, a 14 Diletto, a 12 i restanti). Per Grande Aracri “solo” 6 anni e 8 mesi: aveva promosso l’acquisto con denaro sporco del ristorante “Millefiori” di Montecchio gestito dai fratelli Palmo e Giuseppe Vertinelli, e successivamente passato in mano a Bolognino con l’insegna “Il cenacolo del pescatore”, da parte della Cenacolo Srl posseduta dagli imprenditori Francesco Macrì (al 95%) e Antonio Molinari.
Il 31 ottobre 2018 Bolognino sarà condannato in primo grado a 30 anni all’esito del maxiprocesso tenutosi con rito ordinario davanti al Tribunale di Reggio Aemilia, che ha visto imputati 148 soggetti, di cui 119 condannati (dal 20 febbraio 2020 è in corso il giudizio d’appello cui i giudici hanno deciso di accorpare le posizioni dei 24 imputati che hanno scelto di impugnare con rito abbreviato).
L’associazione era strutturata secondo una precisa gerarchia. In sintesi, i promotori assumevano di comune accordo le decisioni più importanti, e agivano nell’interesse del sodalizio individuando le «strategie della consorteria», ma anche «impartendo le disposizioni necessarie a garantire l’operatività del gruppo e la “produttività” dei rapporti interni, comminando sanzioni agli altri associati e a loro subordinati, curando i rapporti direttamente con Nicolino Grande Aracri». Così facendo permettevano, attraverso la partecipazione alle riunioni e l’imposizione dell’ossequio alle gerarchie, «l’allargamento dell’influenza dell’associazione». C’erano poi gli organizzatori, che riferivano direttamente ai capi Sarcone e Bolognino, perciò meri esecutori delle «direttive dei vertici dell’associazione emiliana», «a completa disposizione degli interessi della struttura» per la «realizzazione del programma criminoso» e la conseguente partecipazione ai vantaggi, soprattutto economici, che ne derivavano.
Una ragnatela che ha toccato in più punti anche il mondo delle libere professioni: si segnalano ad esempio i contatti di Grande Aracri con Roberta Tattini, consulente bancario e finanziario della cosca per il reimpiego di proventi illeciti in attività legali e in società operanti nell’eolico come la Metalma Srl di Lallio (Bergamo); e con il giornalista Marco Gibertini, accusato di aver procurato interviste a due degli imputati prima e dopo la loro condanna per 416-bis. Per entrambi, condannati a una pena rispettivamente di 8 anni e 8 mesi e 9 anni e 4 mesi (confermata in Cassazione), è stato riconosciuto il concorso esterno in associazione mafiosa.
Condanna a 4 anni per abuso d’ufficio, invece, nei confronti di Giulio Gerrini, ex responsabile del servizio Lavori Pubblici del Comune di Finale Emilia, per aver favorito l’assegnazione di appalti alla Bianchini Costruzioni Srl di San Felice sul Panaro. Impresa edile a conduzione familiare esclusa nel giugno 2013 dalla white list della Prefettura di Modena sull’affidamento dei lavori post-sisma del 2012 per i suoi legami con i Grande Aracri (e per questo affiancata dalla ditta Ios di Alessandro Bianchini, figlio di Augusto, titolare della Bianchini).


Per la rimozione dell’interdittiva si sarebbe mosso il senatore Carlo Giovanardi, accusato dalla Dda di Bologna di aver fatto pressioni in tal senso e rivolto persino minacce all’indirizzo di pubblici ufficiali («Con Bianchini… io se fossi in lui… verrei qua con la rivoltella e vi ammazzo tutti…»). Augusto e Alessandro Bianchini sono stati condannati in primo grado (rito ordinario) rispettivamente a 9 anni e 10 mesi e 3 anni. Quanto a Giovanardi, rinviato a processo davanti al Tribunale di Modena, ha optato per il giudizio direttissimo: l’udienza si terrà il 17 dicembre 2020.
In generale, quindi, neanche la politica è stata indifferente all’avanzata dei Grandi Aracri, anzi: salvato dalla prescrizione dal primo all’ultimo grado l’ex Presidente del Consiglio comunale di Parma Giovanni Paolo Bernini, riguardo al denaro corrisposto e agli appalti promessi a Romolo Villirillo e ad altri affiliati in cambio di un sostegno elettorale di 200-300 voti in occasione delle comunali del 2007.
Meno fortunato l’ex capogruppo del PdL nel consiglio provinciale di Reggio Emilia Giuseppe Pagliani, famoso per la cena con imprenditori di Cutro interdetti per mafia al ristorante “Antichi Sapori” di Reggio Emilia: nei suoi confronti i giudici di secondo grado hanno ribaltato il precedente verdetto di assoluzione, condannandolo a 4 anni per concorso esterno (insieme al presunto affiliato Michele Colacino, originario di Crotone ma residente a Bibbiano: 4 anni e 8 mesi per associazione mafiosa).
La Cassazione ne ha disposto il rinvio in appello per un nuovo giudizio. Lo scorso 28 settembre, la requisitoria contro di loro: per la sentenza bisogna attendere il 23 dicembre 2020.
Cruciale nell’inchiesta Aemilia anche lo snodo degli affari dei Grandi Aracri nel mantovano e nel cremonese. Associazione mafiosa che nel processo Pesci frutta a Nicolino Mano di Gomma una condanna a 28 anni, rideterminata in appello a 20 anni e 8 mesi e così confermata in Cassazione lo scorso 12 ottobre (insieme a quelle di altri otto imputati e col rinvio in appello di quattro). Sradicare l’organizzazione e le sue fonti di reddito è ancora oggi un’impresa a dir poco ardua. Basti pensare ai tanti sequestri poi convertiti in confische che hanno interessato il patrimonio di prestanomi riconducibili a Grande Aracri: da ultimo la confisca di beni per un ammontare complessivo di 17 milioni (tra immobili, società, abitazioni e perfino una barca) eseguita lo scorso 12 novembre dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Cremona, in seguito alle indagini partite dalla segnalazione di un prestito usurario da parte dell’imprenditore che ne era stato vittima.
Nonostante l’arresto e le condanne (anche definitive) di capimafia e fiancheggiatori, la guerra contro i Grande Aracri di Cutro e Reggio Emilia è tutt’altro che finita.

Tratto da: wordnews.it, Antimafiaduemila

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