In una settimana multinazionali a livello globale hanno richiesto prestiti per 150 miliardi di dollari battendo tutti i record storici.

In una settimana multinazionali a livello globale hanno richiesto prestiti per 150 miliardi di dollari battendo tutti i record storici.

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In una settimana multinazionali a livello globale hanno richiesto prestiti per 150 miliardi di dollari battendo tutti i record storici. Di fatto, metà di questa somma è stata presa in prestito dalle società americane che in questo momento stanno attraendo prestiti a ritmi assai sostenuti. Зer quale motivo questo è sintomo di una crisi imminente?

Bolla debitoria
Nei primi 7 giorni di settembre multinazionali statunitensi, europee, cinesi e giapponesi hanno venduto obbligazioni per 150 miliardi di dollari. A distinguersi, in particolare, sono stati gli americani: i loro prestiti alle imprese hanno superato i 74 miliardi.

Questa cifra ha battuto tutti i record da quando questi valori sono registrati, ossia dal 1972. In 3 giorni sul mercato americano sono confluiti più titoli di debito di quanto non fosse accaduto nell’intero mese di agosto.

Di primo acchito l’elevata attività degli investitori è sintomo della buona salute dei mercati finanziari. In realtà, la situazione è esattamente all’opposto.

L’economia statunitense sta subendo un rallentamento. Ad agosto per la prima volta in 3 anni è diminuita la produttività e le vendite di immobili arredati sono calate al loro minimo storico degli ultimi 8 anni.

Ancor più eloquente è il brusco calo del volume di trasporti su strada: in un anno è stato del 50% circa. E i prezzi sono calati di quasi il 20%.

Di conseguenza, il comparto è stato colpito da un’ondata di licenziamenti e casi di bancarotta. Stando ai dati della società di ricerca Broughton Capital, nel primo trimestre di quest’anno negli USA hanno annunciato la bancarotta ben 640 società di trasporti su strada (l’anno scorso sono state solamente 310). A luglio e agosto hanno perso il lavoro 4500 camionisti americani.

Anche nel settore dell’olio di scisto, che negli ultimi anni è diventato il simbolo della prosperità dell’economia statunitense, sta registrando un calo. Stando ai dati del Bureau of Labor Statistics, in un anno nel settore dell’Oil & Gas hanno perso il lavoro 11.000 dipendenti.

Nel settore petrolchimico sin dalla crisi del 2009 si registra un calo importante della produzione: di circa 250.000 barili al giorno.

Inoltre, il Ministero del Lavoro ha reso noto che di fatto sono stati tagliati 501.000 posti di lavoro rispetto a quanto comunicato in precedenza. Infatti, stando a un sondaggio commissionato dalla ABC e condotto dalla società Langer Research Associates, il 60% degli americani ritiene “probabile” o “molto probabile” una fase di recessione economica l’anno prossimo. Si confronti: nel novembre del 2007, un anno prima del crollo finanziario, il 69% degli intervistati prevedeva una crisi.

Il denaro ha perso valore
La Federal Reserve sta cercando di sostenere l’economia con prestiti agevolati. A luglio la Fed ha abbassato i tassi per la prima volta in 10 anni.

Tuttavia, oggi è molto rischioso investire nel settore produttivo. Infatti, le società chiave dei settori tradizionali dell’economia statunitense stanno affrontando grandissimi problemi.

Wall Street
Moody’s prevede crack della forza finanziaria statunitense
Il 10 settembre l’agenzia di rating internazionale Moody’s ha abbassato la sua valutazione di Ford Motor Co. a un livello minimo. General Electric sta vendendo freneticamente i suoi asset per saldare con i creditori. Continua la crisi di Boeing: rimane aperta, infatti, la questione del rinnovo dei voli del 737 Max. Non va meglio nemmeno ai giganti tech i quali dovranno affrontare procedimenti penali contro le autorità antitrust e, molto probabilmente, sostenere nuove pene pecuniarie.
In un contesto simile sono in pochissimi ad acquistare azioni. Per questo, per la maggior parte degli investitori lo strumento fondamentale sono diventati i titoli a rendimento fisso, in primis quelli di Stato. Il flusso di denaro su questo mercato ha generato un calo del rendimento dei treasuries fino ai minimi storici.

Poiché i titoli di Stato fungono da cartina al tornasole dell’intero mercato obbligazionario, dopo i treasuries gli investitori hanno cominciato ad andare a caccia anche di obbligazioni societarie. Questo ha significato un ribasso del prezzo dei prestiti per i loro emittenti. Di questo hanno subito approfittato le società più problematiche che grazie all’emissione di obbligazioni stanno attirando denaro per saldare i vecchi debiti. Anche questo ha contribuito a provocare lo “tsunami debitorio” registrato sul mercato.

L’ultimo respiro
Nei prossimi mesi la situazione continuerà a peggiorare perché le banche centrali dei Paesi occidentali, preoccupate dalle prospettive di una crisi mondiale, hanno cominciato ad allentare ulteriormente la loro politica monetaria. La settimana scorsa la BCE ha tagliato i tassi di deposito di 10 punti base e ha annunciato un programma di acquisto di asset per 20 miliardi di euro al mese.

Solo mezz’ora dopo il presidente USA Donald Trump in un twit si è scagliato contro la Fed richiedendole di seguire l’esempio europeo.

“La BCE, agendo tempestivamente, sta abbassando i tassi di 10 punti base”, ha comunicato il capo della Casa Bianca. “Stanno cercando, e ci stanno riuscendo, di svalutare l’euro rispetto al FORTISSIMO dollaro, danneggiando così le esportazioni statunitensi. E la Fed rimane con le mani in mano”.

In realtà Trump ha mosso queste critiche con un certo ritardo: la Fed a luglio ha acquistato obbligazioni di investitori privati USA per 14 miliardi di dollari rilanciando di fatto il quantitative easing.

Gli esperti dubitano che questo possa salvare l’economia dalla recessione. Si confronti, ad esempio, il Giappone la cui banca centrale acquista asset da molti anni ormai.

L’unico risultato di una simile politica è che la banca centrale giapponese è diventata l’azionista di maggioranza della maggior parte delle società nazionali. Così i ritmi di crescita economica non sono aumentati per niente.

Per questo, si potrebbe dire che l’allentamento della politica monetaria operato dalla Fed farà sì che le multinazionali statunitensi di secondo e terzo livello aumentino ulteriormente la loro quota debitoria. Più bassi sono i tassi della Fed, più convenienti sono i prestiti e sempre meno società riusciranno a saldare i debiti.

I rischi di questa situazione sono innanzitutto legati al fatto che l’instabile equilibrio tra una ciclica recessione economica e gli stimoli finanziari della Fed inevitabilmente si romperà e ciò avverrà molto presto. Questa sarà una catastrofe per le società americane quotate in Borsa.

Se “vincerà” la Fed, i suoi tassi aumenteranno e sarà impossibile attirare nuovi fondi per la ristrutturazione del debito. Non rimarrà altro da fare se non annunciare la bancarotta.

Jerome Powell interviene dopo che il presidente statunitense Donald Trump l’ha nominato il suo candidato al posto del capo del Federal Reserve.
Jackson Hole: la Fed intimidita da Trump
Se invece le tendenze congiunturali prevarranno sulla politica della Fed, la recessione sarà inevitabile e gli investitori reindirizzeranno i loro flussi monetari verso beni di rifugio, come l’oro. Private dei prestiti, migliaia di società americane annunceranno nuovamente bancarotta.
Inoltre, i tassi bassi contribuiscono alla formazione di nuove bolle di mercato. Una di queste al momento si sta gonfiando sul mercato immobiliare. I prezzi degli immobili a New York, Los Angeles, San Francisco sono aumentati così tanto che gli americani se ne stanno andando in massa da queste città preferendo invece gli stati centrali dove gli alloggi costano meno. Molti altri invece finiscono per strada poiché non si possono più permettere quegli affitti spropositati.


Fonte:sputnik italia

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