Non giocate col Barile! La transizione alla Green Economy è una sfida rischiosa

Non giocate col Barile! La transizione alla Green Economy è una sfida rischiosa

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Tempo di lettura: 3 min

Di Guido Salerno Aletta.

Il prezzo dell’energia che abbiamo disponibile è cresciuto vertiginosamente, dalla benzina, al gas alla bolletta della luce.
Sono tutti a cercare di capire il perché.

C’è un sistema di aste per la fornitura spot di gas, che in Europa ha spiazzato i contratti di approvvigionamento a medio termine, quelli “take or pay” basati sull’obbligo di ritirare il quantitativo pattuito o comunque di pagarlo.

C’è la solita questione dell’Ucraina, Paese di passaggio del gas russo, e poi quella della Bielorussia che ha minacciato di tagliare i rifornimenti per ritorsione contro la Polonia che non accettava i profughi che premevano alla sua frontiera.

Della vicenda del North Stream 2 sono piene le cronache: sta lì, completato ma vuoto, in attesa delle autorizzazioni di rito. Per questo inverno, non se ne parla.

E poi c’è l’Opec+, che mette insieme i maggiori Paesi produttori di petrolio e quelli di gas, che fanno cartello: per loro è vitale vendere a prezzi sufficientemente alti per finanziarsi: Arabia Saudita per il petrolio e Russia per il gas, guidano il gruppo. Manovrano la quantità complessiva che viene immessa sul mercato, ripartita tra gli associati, per assicurarsi che i rispettivi proventi siano coerenti con le attese di ciascuno. Anche recentemente hanno confermato il modesto aumento della produzione già deciso a luglio, che comunque non la riporta ai livelli di fine 2019, pre-crisi sanitaria. Il barile quota attorno agli 80$, variando giornalmente a seconda che prevalga l’ottimismo circa la ripresa economica ovvero i timori per la diffusione della “variante omicron”: le oscillazioni sono continue, ma non è che la produzione dei pozzi si possa aumentare o diminuire ogni giorno come si fa con il rubinetto dell’acqua di casa.

Ci sono gli Usa, il cui peso nel settore energetico è troppo spesso trascurato: a partire dal 2010 hanno incrementato enormemente la loro produzione interna, arrivando ad essere nel 2019 un esportatore netto di petrolio. In pratica, aumentando a dismisura le trivellazioni dei giacimenti di scisto, gli Usa non solo si sono resi autonomi rispetto ai produttori stranieri, ma hanno addirittura ipotizzato di vendere GNL all’Europa spiazzando il metano russo. I giacimenti di scisto sono problematici: hanno alti costi di estrazione e sono di rapido esaurimento. Dopo aver pompato tutto il possibile nei primi anni, c’è stato un forte rallentamento della loro produzione a partire dalla metà del 2019, a causa del blocco dell’economia determinato dalla crisi sanitaria: i prezzi sul mercato erano a livelli assai inferiori ai loro costi. Ora, la ripresa della produzione è difficoltosa: non solo per via dei costi da affrontare per rimettere in moto gli impianti, ma soprattutto per l’orientamento a finanziare solo investimenti green. Per ovviare all’aumento del prezzo dei carburanti, l’Amministrazione statunitense ha adottato anche un provvedimento eccezionale, mettendo sul mercato quote della riserva strategica di petrolio, ma con risultati assai incerti.

C’è un ulteriore aspetto: i governi europei hanno esteso il principio secondo cui “chi inquina paga” al settore dell’energia, imponendo l’acquisto all’asta di “diritti di emissioni di CO2”: le quote sono differenziate a seconda della tipologia di combustibile usato negli impianti (carbone, petrolio, gas). In questo modo si rende meno conveniente la utilizzazione dei combustibili a più alta emissione di CO2, aumentando il costo di produzione ma scaricando sui consumatori il prezzo pagato alle aste per ottenere il diritto di emissione, e che viene poi riversato ai rispettivi governi. Ci sono dunque delle entrate fiscali aggiuntive per i governi che derivano dai maggiori costi scaricati sui consumatori: sono dunque i cittadini che finanziano indirettamente gli investimenti e gli incentivi green decisi dai governi.

C’è un ultimo aspetto: le politiche green scoraggiano fortemente le nuove perforazioni petrolifere, la ricerca di nuovi giacimenti e la realizzazione di nuovi gasdotti. Non solo servono decenni per passare dalla ricerca e poi alla produzione, ma gli impianti devono essere ammortizzati con i proventi della vendita di petrolio e gas. Lo stesso vale, ed a maggior ragione, per le miniere di carbone.

La conclusione è paradossale: non solo mettiamo “tasse ambientali” che aumentano le bollette pagate dai cittadini e dalle imprese per comprare l’energia elettrica, ma aumentiamo soprattutto la dipendenza strategica per il petrolio ed il gas da una serie di Paesi produttori che si sono organizzati in cartello. E’ un ribaltamento, soprattutto per gli Usa, che avevano scelto la strada della indipendenza energetica.

Il passaggio alle fonti energetiche alternative rispetto a quelle fossili rappresenta una immensa sfida, sul piano sociale, tecnologico, finanziario e geopolitico: il sogno di avere energia abbondante ed a basso costo diviene già un incubo. Anche il Ministro dello sviluppo economico Giorgetti ha recentemente avvertito gli imprenditori del pericolo di un black-out energetico a livello europeo: un segnale preoccupante che è stato lasciato scivolare via.

Siamo in mezzo al guado: ci lasciamo alle spalle la sponda complessa delle fonti fossili per cercare di giungere a quella ancora più problematica di quelle rinnovabili. Le tecnologie, i costi, la effettiva disponibilità, sono tutte questioni non risolte.

Non bastano le belle parole del G20 di Roma o del COP 26 di Glasgow: ci sono già le bollette che raddoppiano e le forniture elettriche a rischio di black-out.

Tratto da: L’Antidiplomatico

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