70 magistrati con Nino Di Matteo. 70 rondini che fanno primavera

70 magistrati con Nino Di Matteo. 70 rondini che fanno primavera

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Tempo di lettura: 3 min
Di Saverio Lodato
Settanta magistrati, d’ogni parte d’Italia, hanno firmato un documento di solidarietà a Nino Di Matteo, nuovamente minacciato di morte, questa volta non solo da Cosa Nostra, ma anche dalla ‘Ndrangheta, chiedendo “agli organi apicali dello Stato” di far sentire tutta la loro ferma determinazione. Invito rivolto al Csm, al suo plenum, al Capo dello Stato Sergio Mattarella, che il Csm presiede.
Settanta rondini fanno primavera, indicano che il clima è cambiato, che stanno finalmente scattando molle profonde nel grande e variegato mondo della magistratura italiana, mai, come di questi tempi, tramortita dagli scandali, annichilita dalla valanga di rivelazioni sui comportamenti indecorosi, indecenti, disonorevoli, di una infinita lenzuolata, ché un fazzoletto non li racchiuderebbe tutti, di magistrati, di piccolo e grande rango poco importa, sui quali ricade la responsabilità di avere pesantemente macchiato l’intero corpo della magistratura italiana.
Dentro la lenzuolata, come tutti ormai hanno avuto modo di capire, in questi due anni di stillicidio mediatico, ci stanno figure diverse. Il pavido accanto al furbacchione. Il carrierista accanto al corrotto. Lo stratega accanto al portaborse. Il mangiatore a sbafo e l’attempato Ganimede. Il Ponzio Pilato accanto al Giuda. Il conformista accanto al pigro per natura. Il calunniatore di professione accanto all’imbelle. Tutti uniti in una gigantesca melassa che se fosse ancora vivo il povero Piero Calamandrei, autore dell'”Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, ne avrebbe di che inorridire. E ne avrebbe ben donde.
Ma qui ci preme ricordare – per tornare alle 70 rondini che fanno primavera -, che sono stati finalmente svelati grandi disegni (tanto grandi quanto sporchi)  che non si limitavano a promuovere questo al posto di quello, in dispregio di titoli e professionalità, o a troncare e sopire situazioni di Procure e uffici surriscaldati, secondo l’adagio manzionano.
Grandi disegni, dicevamo, concepiti invece per accattivarsi le simpatie di un mondo politico trasversale allergico alla legalità, per far l’occhiolino a istituzioni, eternamente incapaci di decidere per il meglio, ben liete che altri facessero per loro il lavoro sporco, per dare, infine, a tanti rappresentanti del mondo dei media una ghiotta offa per poter dire e scrivere che la magistratura ha ormai le ore contate. A non parlar poi di vecchi inquilini del Quirinale che avevano da dire la loro su nomine che avrebbero dovuto invece vederli istituzionalmente muti come un pesce.

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Nino Di Matteo, di questi grandi disegni – non solo lui si capisce – è stato l’agnello sacrificale. Si tenevano cene apposite, riunioni, chat segrete, per segargli la carriera, in qualsiasi ufficio si trovasse, in qualsiasi ufficio facesse domanda per andare. Si era capito, che c’erano dei tappi forti, non limpidi, non giustificati, inspiegabili, che riguardavano la sua persona. Ma il Sistema, sin quando ha retto, ha avvolto Di Matteo con una coltre di silenzio tipica dei regimi autoritari.
Perché Di Matteo, con la sua esperienza, non poteva andare alla Procura nazionale antimafia? Perché gli preferivano sempre altri privi dei suoi titoli? Perché Di Matteo, quando finalmente riuscì ad andare alla Superprocura, nell’arco di poche settimane fu estromesso, pretestuosamente, dalla commissione stragi?
Perché il balletto, teatrino, gioco delle tre carte, chiamatelo come vi pare, della sua, prima annunciata e poi mancata, nomina alla direzione del Dap?
Perché si protrasse la gogna dell’accusa di avere inventato in laboratorio il finto pentito Vincenzo Scarantino, per la strage di via D’Amelio, quando in una mezza dozzina di occasioni lui aveva già avuto modo di dimostrare, per tabulas, di essersene occupato quando altri prima di lui avevano giù fatto la frittata?
Era vittima dei grandi disegni, Di Matteo.
Anche perché si portava sulle spalle il peso di aver rappresentato, insieme a un manipolo di suoi colleghi, l’accusa al processo proibito, quello per la Trattativa Stato-Mafia. Processo – non dimentichiamolo – che non piaceva neanche a Giorgio Napolitano, allora capo dello Stato.
Tutti questi scenari reconditi, oltre mille colleghi di Di Matteo li avevano già intuiti quando lo avevano eletto al Csm, pur non sopportato da alcuna corrente.
Oggi, in 70, prendono carta e penna chiamando in causa persino il Capo dello Stato, Sergio Mattarella. E appena qualche giorno fa, un documento, di analogo tenore, era stato finalmente sottoscritto dall’Associazione nazionale magistrati.
Forse adesso, grazie anche alle 70 rondini, che qualcuno giura siano di più, la ministra della giustizia, Marta Cartabia, potrà pronunciare in scioltezza il nome di Di Matteo, uno dei fiori all’occhiello di una magistratura che non si è piegata.
Tratto da: Antimafiaduemila
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