Di Donatella Vincenti
La foresta pluviale di Tamshiyachu, nel Perù settentrionale, ha subìto deforestazione per fare posto a insostenibili piantagioni di cacao.
Non solo il Brasile, ma anche il Perù assiste inerme alla sistematica distruzione dell’Amazzonia per meri interessi economici privati. Le comunità locali e l’intera umanità non hanno più accesso e non possono più beneficiare di immense distese di foresta amazzonica. Un patrimonio ambientale mondiale i cui ecosistemi e servizi ecosistemici sono spesso sottovalutati ma vitali anche per affrontare la crisi climatica globale grazie alla biodiversità e alle riserve di carbonio di questa straordinaria foresta pluviale tropicale.
Secondo un team di ricerca, in Perù dalla metà del 2013 le piantagioni di cacao della grande società United Cacao avrebbero preso il posto di quasi 2.000 ettari di foresta vergine nei pressi della località di Tamshiyacu (provincia di Maynas), come esito di un sistematico e insostenibile processo di deforestazione e disboscamento del nord del paese ad opera di una catena di società private controllate dall’imprenditore Dennis Melka.
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La suddetta società-ombrello produttrice di cacao con sede alle Isole Cayman, la United Cacao, sostiene invece che gli agricoltori da cui aveva acquisito i terreni avessero ampiamente degradato il territorio sin dagli anni ’90, prima dell’arrivo del business del cacao.
Tuttavia, questa tesi difensiva è stata confutata da dati satellitari, analizzati dall’ecologista Matt Finer (direttore del MAAP, progetto scientifico di monitoraggio dell’Amazzonia) e dai suoi colleghi, come risulta da una serie di immagini restituite dal satellite NASA Landsat.
Quelle immagini sembrano dimostrare che gran parte della distesa di verde e incontaminata foresta amazzonica non esiste più in quella specifica zona, ora sostituita da pianeggianti ed estesi terreni agricoli destinati alle piantagioni di cacao. Un’attività produttiva considerata illegale dai conservazionisti locali e dal governo stesso tramite il Ministero dell’Ambiente. Le immagini del settembre 2013 hanno consentito di verificare la presenza enormi alberi tagliati e accatastati proprio dove sarebbero sorte le piantagioni di cacao.
Secondo i suddetti ricercatori, la United Cacao e il suo CEO Dennis Melka si sarebbero resi responsabili di attività illecite in un’area corrispondente a 3.000 campi da calcio. Le autorità governative competenti nel 2014 hanno tentato a più riprese di bloccare il disboscamento non autorizzato per fermare le piantagioni.
Melka, pressato da cause legali e dalla dura condanna delle pratiche di deforestazione attribuite alla sua realtà aziendale, si è dimesso nel gennaio 2017 dal vertice della società insieme ad alcuni membri del Consiglio di Amministrazione. Subito dopo, la società è uscita dalla lista delle società quotate nel mercato borsistico AIM per le PMI della Borsa di Londra.
La deforestazione, così come altre violazioni della normativa nazionale esistente in materia ambientale, hanno portato a sanzioni contro il successore della filiale peruviana della United Cacao, denominata Tamshi SAC (cioè l’ex controllata della United Cacao, la Cacao del Peru Norte – CDPN).
I manager della società Tamshi sono stati messi in carcere e costretti a risarcire i danni arrecati (pari a 4.2 milioni di dollari USA) e il dirigente senior è stato condannato a otto anni di prigione per commercio illegale di legname. La Tamshi negava ogni responsabilità riguardo alla presunta distruzione della foresta primaria (formata da una intatta e fitta copertura forestale e caratterizzata da una significativa biomassa, comparabile a quella delle aree protette circostanti), che la stessa United Cacao definiva come una foresta secondaria dallo scarso valore ambientale e quindi esclusivamente adatta alle coltivazioni.
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Inoltre, Finer e gli altri studiosi che anche negli anni seguenti hanno esaminato sia la vegetazione dell’area interessata, sia lo stock di carbonio che la foresta era in grado di assicurare, confermano non solo il fatto che si trattasse di foresta primaria, ma anche l’alta densità di carbonio per ettaro di foresta nella regione di Loreto, dove si trova Tamshiyachu.
Dopo ulteriori traversie legali, alla fine del 2020, l’agenzia per la valutazione e l’applicazione normativa del Perù (OEFA), ha fatto chiudere definitivamente i battenti alla Tamshi, ordinandole di lasciare la regione di Loreto in assenza di adeguati permessi ambientali. L’OEFA ha inoltre rilevato che la Tamshi avrebbe anche sversato materiali pericolosi nell’Amazzonia; pertanto, ha preteso dalla società quasi 35 milioni di dollari di risarcimento.
In sintesi, si tratterebbe di un ennesimo caso di deforestazione di un’area rimasta incontaminata per decenni e dove le attività antropiche erano trascurabili, come emerge da dati scientifici elaborati da esperti ecologisti conservazionisti.
Fonti: Finer et al., 2014/MAAP, GreenMe
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